Sidney Poitier
Oggi è normale essere un attore nero, e lo dobbiamo anche a questo pioniere, uno dei simboli più riconosciuti dell’arte cinematografica americana. In un mondo in cui l’affermazione dei diritti civili era contrastata con la violenza, lui offriva eleganza e misura.
Ha portato però, nella sua vita, nella professione e sullo schermo, un modo di essere non sempre pronto ad accogliere le nuove possibilità di integrazione che l’America stava dando ai “colored”, senza una critica e una presa di posizione che ad oggi appare matura e ricercata.
– La Redazione
Lotte esteriori ed interiori di quest’uomo, che non ha mai abbandonato il teatro e che una volta ha detto: “Noi tutti soffriamo la preoccupazione che esista… nella persona amata, la perfezione”.
Essere con coraggio un interprete nero per perorare la causa della tua gente, quando il mondo è un’esclusiva dei bianchi, alle prese con una diffusa violenza, questo era Sidney Poitier. Per la prima volta un nero vince l’Oscar come miglior attore protagonista; il film è “I gigli del campo” di Ralph Nelson, del 1964, un melodramma in cui l’operaio Homer Smith, viaggiando in Arizona, si imbatte in cinque monache profughe dalla Germania Occidentale che lavorano un arido pezzo di terra ai limiti del deserto, e le aiuta nella costruzione della loro cappella. Nella pellicola si mescolano, oltre al bianco e nero, la carne e l’anima, il terreno e il celestiale, maschile e femminile, cattolico e protestante. Non si rinuncia all’erotismo, sottile, dissimulato dietro la favola perbene, adatto alle famiglie di quegli anni confusi e coraggiosi.
E’ stato a lungo l’unico attore afroamericano insignito della massima onorificenza cinematografica (escluso James Baskett, e l’Oscar onorario per I racconti dello zio Tom), fino al 1983 e cioè fino alla premiazione di Louis Gossett Jr. per Ufficiale e Gentiluomo, come miglior attore non protagonista.
Nel ’65 fu nel cast de la “La più grande storia mai raccontata”, dove la vita di Gesù è fedele alla narrazione dei Vangeli.
Lui impersona Simone di Cirene, personaggio “angelico”, destinato alla salvezza per la misericordia e per il simbolismo di cui è portatore: colui che per obbligo o pietà del soldato, porta la croce della divinità. Cristo è interpretato da Max Von Sidow, Telly Savalas è Ponzio Pilato, Charlton Heston Giovanni Battista, e John Wayne il Centurione Longino, che trafisse il costato. Un Colossal, dove per altro i costumi erano del vincitore di due statuette Vittorio Nino Novarese.
Il ruolo sociale
Poitier divenne la faccia dell’integrazione afroamericana al cinema e non solo, un attore e un uomo nella cui storia di successo l’America liberal e progressista amava rispecchiarsi.
Per esemplificare la difficoltà di quel passaggio culturale, basta leggere il giornale comunista “L’Unità” del 15 aprile 1964, il quale titolava “Hollywood ha ceduto il passo” e nell’articolo riportava: “II fatto nuovo dell’Oscar 1964 è dato anche, oltre che dal terzo successo felliniano con Otto e mezzo (i due precedenti erano stati La Strada e Le notti di Cabiria), dalla vittoria di un attore negro — fatto senza precedenti — nella categoria degli attori protagonisti. Sydney Poitier, il protestante che aiuta le suore cattoliche a costruire una chiesa in Lilies of the field (Gigli di campo), vede così coronata con il massimo alloro una carriera intensa e meritevole”.
La sua figura è legata all’affermazione della libertà e della dignità umana, alla diffusione della cultura dell’accettazione e dell’evoluzione sociale. Nel 1997 girerà un film Tv interpretando Nelson Mandela durante la trattativa con il Presidente del Sud Africa De Klerk (Michael Caine). Riceverà da Obama la Medaglia Presidenziale della Libertà nel 2009, in una cerimonia in cui c’erano anche Desmond Tutu, il nativo americano Joe Medicine Crow e Billie Jean King, la grande tennista militante per i diritti LGBT.
E’ uno degli ospiti d’onore della 59a edizione del Film Festival di Cannes del 2006. C’è la Opening Night Gala e World Premiere de “Il Codice Da Vinci”, e il Ministro della Cultura francese lo rende Commendatore dell’Ordine delle Arti e delle Lettere.
Viene nominato Cavaliere Onorario dell’Ordine dell’Impero Britannico (Regno Unito) nel 1974. Non abbandonò mai la cittadinanza delle Bahamas, e per il suo paese – indipendente dal ‘73 – fu Ambasciatore in Giappone (1997-2007) e presso l’Unesco.
Grande il sostegno al movimento dei diritti civili negli anni ’60, che lo hanno visto in prima linea e ne hanno fatto uno dei volti più importanti. Ha partecipato, insieme al suo amico di sempre Harry Belafonte, alla marcia di Washington del 1963 organizzata da Martin Luther King, il quale in seguito disse di Poitier: “È un uomo di grande profondità, un uomo di grande interesse sociale, un uomo dedito ai diritti umani e alla libertà”.
Gli anni 80 e 90
Negli anni ha diradato l’attività artistica, dedicandosi invece alla difesa dei diritti umani e alla missione di ambasciatore culturale delle Bahamas. Ha comunque girato film degni di nota, come Vivere in fuga, di Sidney Lumet, in cui duetta con River Phoenix (che riceve la nomination) e nella commedia I signori della truffa, al fianco di Robert Redford e Dan Ayckroyd.
Ha partecipato a successi per il pubblico giovanile, in questa seconda parte della carriera. Come nel 1988, quando in “Nikita – Spie senza Volto” è l’agente dell’FBI sulle tracce della misteriosa spia russa Scuba. Nella trama avverte l’adolescente di San Diego River Phoenix che i genitori sono spie russe e che stanno per essere uccisi da un vecchio sicario del Kgb, che ricatta gli ex compagni. È il primo film del nuovo corso Reagan-Gorbaciov, e infatti vediamo l’agente americano e quello russo sparare insieme contro un comune nemico. Non succedeva (sullo schermo) dal 1945.
O come in “The Jackal”, del 1997, insieme a Bruce Willis e Richard Gere, la sua ultima pellicola. Anche questa una spy story, dove i risvolti psicologici e il magnetismo dei personaggi sostituiscono spesso le pistole.
Immutata, oltre al tocco gentile, la presenza scenica e il poter incarnare, agli occhi del grande pubblico, personaggi (spesso poliziotti) di grande spessore morale.
Come tutto inizia
Nasce nel 1927 a Miami, e fu un caso: i genitori, contadini delle Bahamas, vi si trovavano per vendere una partita di pomodori. Lascia a 13 anni la scuola per aiutarli. Durante la seconda guerra mondiale nel ‘43, mente sulla sua vera età e si arruola nell’esercito. Viene assegnato ad un ospedale per Veterani, e addestrato per lavorare con pazienti psichiatrici. Poitier si arrabbiò in quell’occasione per il trattamento riservato ai ricoverati, e finse una malattia mentale per ottenere il congedo. In seguito confessò a uno psichiatra la sua truffa, e il medico fu comprensivo e gli concesse il congedo.
Un’altra versione della storia dice che non amando la vita dell’esercito, si finse malato di mente. Dopo essere stato minacciato di trattamenti con elettroshock, ammise di aver mentito sulla sua età, e dunque, dopo diverse settimane di sessioni terapeutiche imposte dall’esercito, venne dimesso.
Comunque sia, va a New York. Ha 3 dollari in tasca, fa il lavapiatti e dorme in un deposito di autobus, fino ai lavoretti ed in seguito all’audizione con l’American Negro Theatre di Harlem. Studia recitazione, e nel ‘49, mentendo ancora sulla sua età, debutta.
E’ il periodo in cui stringe l’amicizia con Harry Belafonte, suo alter ego nella musica, che diverrá tra gli artisti discografici più popolari in America, il primo nero a vendere 1 milione di dischi. Entrambi poveri e originari delle Indie Occidentali, quelle scoperte da Cristoforo Colombo in persona, Sidney ed Harry si incontrano nel ‘46. Il primo sognava il palco e lo schermo, Harry cantava un po’. Si narra che Belafonte ottenne il suo primo ruolo di recitazione, e la volta che non potette essere presente in scena, il sostituto si fece avanti, ed era il suo amico. Quella notte una potente figura di Hollywood era sul palco e vicino al pubblico.
Arriva la proposta dal produttore Darryl Zanuck per lavorare in “Uomo bianco tu vivrai”, in cui interpreta un medico afroamericano che si deve confrontare con il razzismo dell’America post bellica. La sua performance lo fa entrare nella notorietà. Nel 1957, dopo aver rifiutato molte parti che considera umilianti, Poitier inizia a ricevere contratti normalmente non concessi ad attori afroamericani, ad esempio ruoli da protagonista.
Ottiene una nomination nel ‘58 per l’interpretazione nel capolavoro di Stanley Kramer “La parete di fango”, dove contribuisce ad abbattere le barriere del razzismo con ampia facoltà di metafora: è un detenuto in fuga legato con una catena al bianco Tony Curtis, in uno scontro di pregiudizi nelle paludi della Louisiana. Entrambi gli attori ottengono la nomination all’Oscar come miglior attore protagonista.
Nella storia del cinema
Si è spenta dunque a 94 anni, quella che verrà ricordata come la star di «Indovina chi viene a cena?», commedia progressista di Stanley Kramer, pietra miliare della lotta per i diritti civili. Il medico John Prentice, dunque un borghese, dopo l’incontro 10 giorni prima alle Hawaii, si fidanza con la ragazza bianca Joanna “Joey”, appartenente ad una agiata famiglia liberal. I due hanno deciso di sposarsi e si recano a San Francisco, per incontrare i genitori della ragazza (Spencer Tracy e l’Oscar Katharine Hepburn, compagni anche nella vita). Joey avrebbe voluto seguire subito il suo adorato John, ma lui esige l’incondizionata approvazione dei genitori di lei, i quali sono costretti ad affrontare il loro razzismo latente.
La situazione diviene ancora più intricata allorché, invitati da Joey, i genitori di John – i quali ignorano che la ragazza è bianca – vengono a cena dai Drayton. Devono anche loro combattere con i propri pregiudizi e le paure. Durante uno scambio tra padre e figlio Prentice, il padre sbotta: “In sedici o diciassette stati, voi violerete la legge. Sarete criminali“ ! Poco dopo la fine delle riprese, la sentenza Loving spianerà la strada all’amore libero, rendendo così, Indovina chi viene a cena, un’opera che rappresenta il culmine di un importantissimo cambiamento sociale.
Nella lavorazione di questo capolavoro è centrale il rapporto tra Tracy e la Hepburn. Le condizioni fisiche di Tracy erano pessime, tanto che furono realizzati due script, uno in cui il personaggio non era presente. Sia la Hepburn che Kramer, utilizzarono il proprio ingaggio per coprire l’assicurazione sanitaria dell’attore. Giornate lavorative di malinconia, da cui emerge la tenerezza della Hepburn che vegliava fin quando il marito poteva stare sul set. Spencer Tracy morirà 17 giorni dopo le riprese. Leggenda vuole che la Hepburn non abbia mai voluto vedere il film per intero.
L’apice del film sarà il monologo di Spencer, che alla fine riconduce tutto alla sincerità e alla forza dei sentimenti, ed è questa la risorsa che cambia il mondo:
“Perché nell’analisi finale, non importa un cavolo di ciò che noi pensiamo; l’unica cosa che conta è quello che loro provano, e quanto amore provano l’uno per l’altro. E se è anche solo la metà di quello che abbiamo provato noi; allora è tutto. (…)
“Quanto a voi due e ai problemi che dovrete affrontare a me sembrano quasi inimmaginabili, ma tra questi io non ci sono. […] Voi però lo sapete, e io so che lo sapete che cosa sfidate. Ci saranno 100 milioni di persone qui negli Stati Uniti che si sentiranno disgustate, offese, provocate da voi due e dovrete conviverci. Magari ogni giorno, per il resto delle vostre vite. Potrete cercare di ignorarne l’esistenza o potrete sentire pietà per loro e per i loro pregiudizi; la loro bigotteria, il loro odio cieco e le loro stupide paure. Ma quando sarà necessario dovrete saper stare stretti l’uno all’altra e mandare al diavolo questa gente. Chiunque potrebbe farne un dannato caso del vostro matrimonio. Gli argomenti sono così ovvi che nessuno deve sforzarsi di cercarli. Ma siete due persone meravigliose, a cui è capitato di innamorarsi e a cui è capitato di avere un problema di pigmentazione”.
Oltre ai David di Donatello e ai British Academy Film Award che riconoscono le straordinarie figure degli impacciati ed intelligenti genitori bianchi, pesano le 10 nomination all’Oscar; oltre all’interpretazione della Hepburn, l’Academy premia la sceneggiatura originale di William Rose. Nel 1998 l’opera è inserita dall’American Film Institute al novantesimo posto tra i migliori 100 film statunitensi di sempre. Dal 2017 è conservato al National Film Registry della Biblioteca del Congresso, per essere “culturalmente, storicamente ed esteticamente significativo”.
Carriera
Indiscusso comunque il suo talento, vinse due volte l’Orso d’Oro a Berlino, e gli fu concesso l’Oscar alla carriera nel 2002. Una serata magica, in cui Denzel Washington, premiato a sua volta con la seconda statuetta per il poliziotto corrotto di Training Day’s, era tra gli incaricati ad insignirlo: “Per quarant’anni ho inseguito Sidney. Finalmente mi danno l’Oscar, e cosa fanno? Ne danno un altro a lui la sera stessa!”.
Nello stupendo discorso, Poitier ha ringraziato registi e produttori che gli avevano contribuito ad una impresa che quando nel 1949 era considerato impensabile. Un riconoscimento insomma agli uomini bianchi che hanno creduto in lui e nel cambiamento, esteso poi all’industria cinematografica, che ha provocato tanti effetti positivi, negli Stati Uniti e nel mondo. Ma nulla gli è stato regalato, lo aveva ricordato Denzel dicendo che fu anche la sua bravura a spezzare le catene, a rendere assai arduo escludere un talento vero, e in un certo senso lo ha rimarcato anche lui, quando ha ricordato di essere arrivato ad Hollywood a 22 anni. Prima della famiglia, ha ringraziato tutti gli attori di colore che lo avevano preceduto, e che avevano dovuto combattere in tempi più difficili, e grazie a loro lui ora era lì.
La lotta alla violenza
Così come era accaduto ne “La scuola dell’odio” (1962), ne “La scuola della violenza” (1967), Sidney Poitier porta sul grande schermo le dinamiche razziali ma anche quelle legate al mondo della violenza in se: si scontrano un Ingegnere-tirocinante idealista e un gruppo di turbolenti studenti delle scuole superiori dei bassifondi dell’East End di Londra. Ne “Il seme della violenza“, interpretato nel 1955 insieme a Glenn Ford, è quest’ultimo, insegnante bianco e pieno di slancio, ad essere vittima dell’ignoranza e della povertà educativa ed economica, in questo caso una classe di teppisti all’avvento del Rock.
Nel 1965, insieme a Shelley Winters interpreta un amore interraziale in “Incontro a Central Park”; ormai Poitier è un divo riconosciuto, e dal ’67 incarna la trilogia dell’ispettore Tibbs, in cui è l’ispettore Virgil Tibbs, al fianco di Rod Steiger, che vinse uno dei 5 Oscar di cui fu insignito il primo episodio di Norman Jewison. Nel film è dotato di grande intelligenza e doti investigative, ma spesso, nelle sue indagini è ostacolato dai pregiudizi razziali nei suoi confronti, incontrando però anche i propri, verso una generalizzazione dell’uomo bianco.
Il saluto
Nonostante la lunga carriera di successo, Poitier ha espresso frustrazione per il fatto che ci fossero ancora molte persone là fuori che si concentravano semplicemente sullo status di primo uomo di colore a vincere a Hollywood, piuttosto che sull’attore di talento che era. “Mi occupo sempre di domande basate sulla razza, ma me ne risento”, ha ammesso durante un’intervista del 2000 con Oprah Winfrey. “Non lascerò che la stampa mi spinga in una definizione fornendomi solo domande sulla razza. Ho stabilito che la mia preoccupazione per la razza è sostanziale. Ma allo stesso tempo, non mi occupo solo di razza. … devo trovare l’equilibrio».
Sideny Poitier è stata una Leggenda del Cinema, gigante gentile ma che nessuno a quattrocchi avrebbe chiamato «negro», un uomo genuinamente regale, come ha twittato Jeffrey Wright. Invece Whoopi Goldberg ha condiviso le condoglianze con la famiglia: “… scriverei attraverso il cielo in lettere che si eleverebbero a mille piedi di altezza. Con amore, Sir Sidney Poitier RIP, ci hai mostrato come raggiungere le stelle”.
Oggi Hollywood lo piange come ultimo esponente della «Golden Age» che trionfava tra gli anni ’50 e ’60. Come ha detto Oprah: “Per me, il più grande dei “Grandi Alberi” è caduto…”, e proprio a lei confidò una storia della sua infanzia, su una volta in cui la madre andò da un indovino a Miami, preoccupata per Sidney che era nato prematuro. “Non preoccuparti per tuo figlio” le disse, “Non sarà un bambino malaticcio. Camminerà con i re. Camminerà su colonne d’oro. E porterà il tuo nome in molti posti”.
Ciao Sydney Poitier, non ti dimenticheremo!
FONTI: Corriere della Sera – Il Fatto Quotidiano – Il Messaggero – Wikipedia – nonsolofilm.com – movieplayer.com – Frasicelebri – italiannews24 – ciakmagazine.it – thewrap – cineblog – strisciarossa – cineavatar.it